Secondo il coaching ontologico non esiste un solo modo di interpretare la realtà, ma siamo noi con le nostre interpretazioni a generare una visione del mondo filtrata dal nostro modo di essere e dalle nostre esperienze. Ci raccontiamo il mondo, conversiamo su di esso, ci emozioniamo ed agiamo sulla base delle nostre narrazioni. Il modo in cui queste avvengono, il linguaggio che utilizziamo e le dichiarazioni che facciamo sono determinanti per aprire o chiudere possibilità di azione. Cambiando le nostre convinzioni siamo in grado di modificare la nostra percezione della realtà, promuovere il cambiamento, generare commitment, risolvere conflitti e situazioni difficili che invariabilmente rallentano le performance aziendali
Il coaching ontologico affonda le sue radici nella filosofia costruttivista di Maturana, secondo la quale non esiste una sola realtà, ma tante realtà quanti punti d’osservazione. Osserviamo il mondo intorno a noi, filtrandolo in base ai nostri modi di essere e alle nostre esperienze e descrivendo ciò che vediamo, generiamo la nostra realtà. Non è più “il mondo è come è” ma “il mondo è come siamo”. Se questo è vero, allora possiamo dire che il linguaggio genera realtà e siamo noi, con le nostre conversazioni a dare un’interpretazione di ciò che abbiamo intorno.
L’importanza del dialogo interiore nello sport
A partire dalla filosofia costruttivista, l’idea del coaching proviene dallo sport. Negli anni ’70, Timothy Gallwey, istruttore di tennis ad Harward, osservando i risultati mediocri ottenuti sul campo da atleti ben preparati, constata l’importanza del loro dialogo interno. Nel suo libro “The inner game of tennis” Gallwey spiega come, durante la partita l’atleta sia impegnato contemporaneamente su due fronti e contro due rivali, uno in carne ed ossa ed uno interiore: “il rivale che il tennista ha dentro la propria testa è più spaventoso di quello che si trova dall’altra parte della rete”. Durante gli allenamenti inizia quindi lavorare tenendo conto degli ostacoli interni dei suoi atleti, cercando di cambiare le loro conversazioni di impossibilità, inadeguatezza, paura e così via e rendendoli liberi di apprendere e giocare, senza bisogno di ulteriori correzioni sulla tecnica.
Il modello GROW
Negli anni successivi, John Whitmore, Alan Belle e Graham Alexander, portano avanti l’idea di Gallwey e sviluppano il cosiddetto modello GROW, che definisce le fasi del processo decisionale. Si inizia mettendo a fuoco un obiettivo (goal), si analizza la situazione di partenza, quella attuale (reality), si valutano ostacoli incontrati e opzioni possibili (options) e infine si passa a stabilire il piano d’azione per il raggiungimento dell’obiettivo. In questo modello, partendo dalla convinzione di base che ognuno sia il massimo esperto del suo problema, il ruolo del coach diventa quello di supportare le persone nel loro processo di apprendimento. Come dice la parola stessa (dall’ungherese kocsiso o dal ceco koczi o dall’inglese coach), il coach agisce come una carrozza, che accompagna il passeggero e gli permette di arrivare a destinazione, ma non decide dove andare, che strada fare, quale andatura tenere…
Iniziare subito ad essere la persona che vogliamo diventare
Molto spesso siamo portati a ragionare in termini di FARE-AVERE-ESSERE, pensando che fare qualcosa possa permetterci di ottenere quello che vogliamo e questo ci permetterà di essere la persona che vorremmo essere. Ad esempio fare carriera può permetterci di avere molto denaro ed essere una persona felice e stimata. Il coaching ontologico ribalta questo paradigma e ci propone di iniziare da subito ad essere la persona che vogliamo essere (onesta, felice, ecc.), perché da questo modo di essere avranno origine delle azioni che ci porteranno a ottenere ciò che desideriamo. Il paradigma diventa allora ESSERE-FARE-AVERE.
Consapevolezza e responsabilità
L’obiettivo è di trasformare il nostro modo di osservare la realtà, riuscendo a dissolvere gli ostacoli che oggi non ci permettono di ottenere i risultati che ci siamo prefissi. Attraverso la tecnica di porre domande, il coach lavora per sviluppare nel coachee la consapevolezza della propria situazione, del proprio potenziale, la responsabilità di cambiare le proprie convinzioni e raggiungere i propri obiettivi. A partire da tre domande di base (Qual è la tua situazione attuale? Cosa vuoi ottenere? Cosa ti manca per ottenerlo?), il manager-coach può aiutare i propri collaboratori ad allineare impegno, azione e risultato e uscire dalla propria area di confort, per realizzare cose extra-ordinarie.
Verso il superamento delle opinioni limitanti
Come l’elefante incatenato di Bucay (Jorge Bucay “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere”, ed. BUR 2014), molto spesso le persone si portano dietro dal passato l’opinione limitante di non essere in grado di fare qualcosa o di cambiare la propria situazione e, semplicemente, smettono di provarci, si arrendono. Rispondendo alle domande del coach e osservando la situazione attuale, rispetto al passato, possiamo facilmente cambiare il nostro modo di osservare e farci nuove opinioni, più adatte alla persona che siamo oggi. Il vantaggio, rispetto alla formazione tradizionale, è che le persone imparano a imparare, apprendono una metodologia, poi applicabile a qualsiasi situazione.
Le distinzioni linguistiche
Per osservare la realtà da punti di vista diversi è utile servirsi delle distinzioni linguistiche, sfumature di significato assegnate a parole di uso comune, attraverso le quali si ottengono nuove interpretazioni della realtà che favoriscono un cambio di prospettiva e di azione. Distinguere significa dare un nome a qualcosa che si differenzia, che si caratterizza in modo diverso da qualcos’altro. Il linguaggio ci permette di operare una distinzione, ampliando e arricchendo il nostro punto di osservazione e di conseguenza aumentando le nostre possibilità di azione. In altre parole, apprendiamo qualcosa di nuovo.
Alcuni esempi concreti: esigenza/eccellenza
Ad esempio in un contesto aziendale con obiettivi alti, può accadere che una persona esigente si senta schiacciata dal proprio perfezionismo e finisca per essere paralizzata dalla paura di sbagliare, mai contenta dei risultati raggiunti, pronta a vedere ed evidenziare ciò che manca e percependo qualsiasi errore come un fallimento che coinvolge tutto il suo essere. In un caso come questo, distinguere tra esigenza ed eccellenza, consentirà di vedere nell’eccellenza il modo alternativo di chi tende a fare le cose nel miglior modo possibile, mettendo in campo tutte le sue capacità, apprezzando il lavoro già fatto, sfruttando la creatività ed imparando dagli errori, che risultano essere preziose occasioni di apprendimento.
Essere/fare
Quando non abbiamo in noi la distinzione tra essere e fare rischiamo sovrapporre ciò che siamo e ciò che facciamo (ad esempio se vado bene a scuola, allora sono intelligente, se ho brutti voti allora sono uno scemo, se sbaglio allora sono sbagliato io), innescando una lotta quotidiana per fare sempre di più e aspettandoci di ricevere sempre il riconoscimento degli altri. Noi siamo più della somma dei nostri “fare” e se riusciamo a distinguere ciò che facciamo da ciò che siamo, gli errori possono diventare straordinarie occasioni di apprendimento, senza che questo scalfisca minimamente la persona che siamo.
Errore/fallimento
Direttamente collegata a essere/fare, la distinzione errore/fallimento ci aiuta disinnescare la sensazione che i nostri errori costituiscano altrettanti fallimenti personali, che ci allontanano dai risultati e incidano sul nostro modo di essere. Questa convinzione rende l’errore qualcosa da nascondere, da evitare perché ci farà vivere con paura, sfiducia, ansia. Questo stato d’animo ci indurrà a trovare scuse e giustificazioni per alleviare il nostro senso di colpa e ci renderà intolleranti anche verso gli errori altrui. La distinzione tra errore e fallimento ci consentirà, invece, di considerare l’errore come parte integrante del processo di apprendimento. Imparare qualcosa di nuovo significa esporsi, fare tentativi, esplorare opzioni diverse, prima di trovare il modo più appropriato per il raggiungimento del risultato. Basti pensare a un bambino che impara a camminare, che cade continuamente e si rialza per provare ancora, finché non riesce a stare in piedi da solo. Considerare dunque l’errore come opportunità, ci permette di uscire dalla nostra zona di comfort per esplorare nuovi territori e ci consente di operare in contesti emozionali quali l’ottimismo, la fiducia, la passione.
E/E oppure O/O
Molte situazioni conflittuali originano dalla contrapposizione di due idee (o la mia, o la tua) e in modo automatico si esclude che esistano alternative; soprattutto si esclude che le due idee possano coesistere. Sostituire la o con la e ci permette di comprendere che possono coesistere più posizioni differenti, senza che l’una debba necessariamente escludere l’altra (la mia e la tua). Questo apre lo spazio per integrare più elementi, più punti di vista, più strategie, e a livello relazionale, ci permette di includere l’altro e le sue opinioni nel nostro orizzonte di pensiero e di azione.
Fatti/opinioni
I fatti sono descrizioni, osservazioni della realtà, di ciò che accade o è già successo. Sono veri o falsi, misurabili ed eventualmente verificabili attraverso prove. Le opinioni invece sono le interpretazioni che noi diamo agli eventi, e possono essere più o meno fondate su questi ultimi. Appartengono a chi le formula e sono correlate ai nostri modelli mentali, alle nostre esperienze passate, alla nostra cultura. Un’opinione anche se ampiamente condivisa, rimane comunque un’opinione. Confondere le opinioni con i fatti ci preclude la possibilità di cambiamento, poiché i fatti non sono modificabili mentre le opinioni sì. Separarli ci permette di aprire lo spazio a nuove interpretazioni offrendoci così nuove azioni per il futuro.
Vittima/responsabile
La distinzione tra vittima e responsabile è estremamente utile in tutti gli ambiti della nostra vita. La tentazione di chiamarci fuori dalle situazioni con la scusa che la colpa è di qualcun altro e dicendoci che non c’è nulla che si possa fare al riguardo, è sempre in agguato. La vittima è per sua natura innocente e impotente, non si riconosce come parte del problema e cerca qualcuno da biasimare. È una posizione rassicurante, che alleggerisce la tensione e ci solleva dal dover fare qualcosa, tuttavia le nostre possibilità di azione sono nulle. Il responsabile invece è colui che si considera parte del problema e di conseguenza sceglie di agire per trovare una soluzione. La responsabilità va intesa come abilità a rispondere: questa è la capacità di elaborare il maggior numero di azioni possibili per la risoluzione del problema. Una delle strade possibili per passare dall’essere vittima a sentirsi responsabile è quella di trasformare le lamentele e il biasimo (tipiche della vittima) in richieste precise e motivate.
Fiducia come opinione
La fiducia è ciò che ci permette di interagire con gli altri, di costruire relazioni. La nostra capacità di agire nel mondo dipende in gran parte dalla fiducia in noi stessi, nelle persone che ci circondano, nell’ambiente in cui viviamo. Nel modello ontologico, è un’opinione che apre o chiude possibilità, che ci predispone a un determinato tipo di azione. Quando ci fidiamo ci sentiamo più forti, più disponibili, più aperti verso l’esterno. Al contrario, quando non ci fidiamo le nostre conversazioni sono più timorose, caute e agiamo per proteggerci, per limitare ipotetici danni e stare al sicuro. Sviluppiamo relazioni sulla base della paura, del timore. Guardare alla fiducia come a un’opinione ci permette di agire per alimentarla, sostenerla, ricostruirla lavorando sulle opinioni che ne sono alla base: competenza, affidabilità e sincerità.
Gli strumenti del coaching al servizio della leadership
Gli strumenti del coachig ontologico sono diversi e, una volta appresi, possono facilmente essere utilizzati da imprenditori o manager per promuovere il cambiamento e generare commitment, risolvere conflitti e situazioni difficili (ad esempio il triangolo drammatico), che invariabilmente rallentano le performance. Impostare le relazioni aziendali in base al modello “del bastone e della carota” è una scorciatoia che a lungo andare finisce per tornare indietro negativamente, come un boomerang. Questo tipo di relazioni, infatti, presuppongono un costante controllo sull’esecuzione della consegna data e non ci si può mai distrarre. Per dirla con John Gough, dando ordini e diffondendo la cultura della paura “puoi far correre un uomo, ma non puoi farlo correre veloce!”.
Valorizzare i talenti di ognuno
Basta immaginare quale differenza possa fare un imprenditore che sappia comprendere i propri collaboratori, valorizzando i talenti di ciascuno e creando un ambiente di lavoro basato sulla collaborazione e sull’impegno di ognuno per lo stesso risultato. O un manager che sappia gestire ambizioni e lotte di potere all’interno del suo team, mediando e coltivando il senso di responsabilità di ognuno nei confronti di sé, dei colleghi e dell’azienda. Sostituire bastone e carota, con impegno e fiducia, ha l’indubbio vantaggio di distribuire la responsabilità del risultato su ognuno. Il coaching non è una panacea per qualsiasi problema sul lavoro, ma è molto più di un semplice strumento di management da usare in situazioni come la pianificazione, le deleghe o il problem solving. Ed è infinitamente di più di un metodo per abbassare lo stress di un manager irascibile. È un modo diverso di vedere le persone e le loro infinite possibilità.
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