Per comprendere i rapporti tra Education e trasformazione digitale sono utili uno sforzo di visione internazionale e una riflessione su alcune peculiarità del nostro sistema educativo.
Il confronto con l’estero
L’elevatissima disoccupazione giovanile italiana va di pari passo con la percentuale più bassa di giovani dotati dei titoli di studio più elevato, di livello terziario. Troppo spesso, però, questa carenza viene banalizzata affermando che abbiamo “un numero insufficiente di laureati”.
Confrontandoci con i sistemi educativi dei paesi a noi simili, primo tra tutti la Germania, scopriamo che i laureati universitari in senso stretto sono quasi gli stessi (circa il 23% dei giovani) per quantità e percentuali. Siamo invece carenti nella “qualità” dei laureati: troppe poche lauree tecniche e scientifiche, specie quelle ingegneristiche ed informatiche.
Ma siamo totalmente carenti nei cosiddetti di “diplomati di terzo livello”, quelli “non universitari” a carattere professionalizzante. Proprio in Germania, oltre 800.000 ragazzi frequentano questo tipo di scuole ogni anno (il 24% del totale). In Italia esistono solo i diplomati ITS, una sparuta minoranza di circa 8000 allievi l’anno: un centesimo della Germania.
Il fenomeno non è solo europeo: è crescente e consolidato il successo di titoli terziari professionalizzanti (diplomas o bachelor) dei cosiddetti “Community College” che, negli USA come in Canada, raccolgono milioni di studenti.
Insomma, la nostra offerta formativa di livello più elevato (quello terziario) manca del tutto di un segmento che nei paesi simili rappresenta da un quarto ad un terzo dei giovani dopo gli studi superiori.
L’assenza di tecnici intermedi nella trasformazione digitale e non solo
Questo fenomeno non solo causa una totale mancanza di alternative alle lauree universitarie, ma priva le aziende di intere generazioni di tecnici intermedi. Inoltre priva i giovani di sbocchi occupazionali vocazionali, indispensabili ai sistemi produttivi.
Buon ultimo, ma non meno importante, la mancanza di diplomati terziari è certamente uno dei presupposti mancanti alla diffusione della rivoluzione digitale.
Un recente articolo su La Stampa parla della “caccia ai tecnici” per adottare la trasformazione digitale. Si noti come la stragrande maggioranza di queste figure mancanti non si riferisce ai “laureati” (18.000 ingegneri mancanti), ma ai tecnici intermedi (otre 60.000).
Quella dei “tecnici” mancanti è una realtà di oggi di esigenze non soddisfatte e di opportunità mancate. Diversamente da quanto avvenne all’epoca del cosiddetto “miracolo italiano”. Allora lo sviluppo dell’economia e della società fu reso possibile da un numero significativo di diplomati: periti, ragionieri, geometri, furono l’autentica spina dorsale di quella rivoluzione e di tanta parte del nostro progresso.
Oggi non siamo più capaci di formare i tecnici “intermedi” necessari ad integrare i, sempre pochi, laureati tecnici.
Troppi liceali e pochi tecnici
I diplomati degli Istituti tecnici superiori di livello secondario non sono più sufficienti. Per il parziale scadimento di questo tipo di scuole, che pure furono definite da Andrea Pininfarina “l’argenteria di famiglia del nostro sietma educativo”. Ma questo scadimento ha radici lontane: è iniziato con la sciagurata riforma degli organi collegiali della Scuola, che le privò dell’indispensabile rapporto organico con le imprese.
Va poi detto che questo tipo di istituti è comunque sempre meno scelto dagli studenti (e dalle loro famiglie) a vantaggio del sistema liceale. In Italia i lieceali sono infatti diventati maggioritari, da pochi anni ma in modo crescente. Si tratta anche in questo caso di un’anomalia tutta italiana, frutto di pregiudizi, retaggi culturali e sociali, in base ai quali la scuola (e la cultura) tecnica sono “inferiori” a quella umanistica. E dalla falsa credenza che i giovani devono prima studiare e solo dopo pensare al lavoro.
Per tornare alle prospettive della trasformazione digitale delle PMI, occorre modificare la nostra incapacità di formare giovani tecnici. E farla evolvere proprio per poter cogliere la sfida digitale, che non può fare a meno di adeguate figure intermedie.
ITS o lauree professionalizzanti?
Su questa necessità da alcuni mesi è in corso una sorta di “competizione” virtuale, tra il sistema ITS, l’unico oggi presente, e l’alternativa delle lauree professionalizzanti, ancora non operative né definite.
A mio avviso è sbagliato che non ci sia spazio per tutti, partendo dall’attuale incapacità di formare tecnici con meno di 10.000 giovani l’anno.
Tuttavia, quando si parla di strutture e finanziamenti, l’equidistanza non paga e occorre scegliere.
Dico allora la mia.
Scuola e Università in Italia sono sistemi caratterizzati più dall’attenzione verso chi insegna che verso chi apprende. E quasi mai si dà ascolto e ruolo a quanto richiedono le aziende.
Scuola e Università dipendono dallo stesso ministero, caratterizzato da un’inerzia amministrativa immane, con concorsi per docenti e con programmi che si modificano in decenni. Insomma, l’education tradizionale appare l’esatto contrario di ciò che serve per una “scuola del futuro”, che accompagni l’immanente digitalizzazione.
Le stesse Università, se anche approcciassero le lauree professionalizzanti, ben di rado hanno dimostrato l’umiltà necessaria per associare le imprese in tali progetti con pari dignità . Forse per sopravvalutazione della propria la funzione di “guidare il cambiamento” (anche digitale), rispetto a quella di favorirlo collaborativamente.
Gli ITS pur essendo una realtà fragile e spesso strutturalmente poco efficiente, nascono (quasi) tutti per rispondere a reali esigenze formative delle aziende. E sono in grado, unici nel sistema, di adeguare in tempi rapidi e con grande elasticità, le competenze,i programmi e i docenti.
La scelta necessaria
Per la trasformazione digitale (così come per la sicurezza o per la qualità) non è soltanto necessario avere i super specialisti (utili, indispensabili, ma non sufficienti).
Ma è necessario avere anche il maggior numero possibile di addetti intermedi in grado di comprendere e contribuire ad essa.
Scelgo quindi la grande capacità degli ITS, unica nel suo genere e irripetibile negli ordinamenti scolastici e universitari, d’inserire con immediatezza le basi delle tecnologie abilitanti e le soft skill necessarie.
Si tratta di un aiuto indispensabile a tutti i percorsi didattici che vogliono dare supporto alla crescita digitale del paese.
Questa scelta, per non risultare velleitaria, richiederebbe un impegno diverso dall’attuale, tentennante e caduco da parte dei decisori. L’intervento deve essere invece deciso e fermo da parte della politica e delle istituzioni, per non lasciare gli ITS nell’attuale limbo. Occorrerebbe infatti provvedere ad una riforma incisiva nel senso dell’efficienza e sono ovviamente necessari adeguati finanziamenti, crescenti nel tempo. Si consideri che si tratta comunque d’importi marginali nei grandi numeri del sistema educativo.
Salire dagli attuali 13 milioni di euro ad 80 (com’era previsto nella legge di stabilità) sarebbe una goccia nel bilancio del MIUR. Ma potrebbe letteralmente “mettere il turbo” alla formazione e alla reperibilità di giovani tecnici idonei ad affrontare la trasformazione digitale nei moltissimi settori in cui ce n’è bisogno.
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