Fast-fashion: quanto ci costa davvero la moda?

Il mondo della moda è costantemente in mutamento, la necessità di avere nuove collezioni al passo con le ultime tendenze sembra essere irrinunciabile. Il fast fashion soddisfa questo bisogno facendosi largo nel mondo delle grandi firme.

Ma che cos’è il fast fashion?

Il fast fashion è un fenomeno iniziato alla fine degli anni ‘80 ma affermatosi negli ultimi 15 anni: marchi oggigiorno famosi come Zara, iniziarono ad aprire i primi punti vendita in tutto il mondo. La caratteristica che li distingueva dagli altri negozi era che vendessero capi d’abbigliamento a prezzi bassi e che ci fosse un continuo ricambio, circa ogni due settimane, di collezioni. Ancora oggi questa peculiarità ha assicurato alla clientela guardaroba sempre ricchi e al passo con i tempi. Come è possibile? Semplicemente con l’utilizzo di materiali economici ma non sostenibili e una manodopera a basso costo.

Fast fashion: cifre da capogiro per guadagni e inquinamento

Bisogna considerare che l’industria tessile è altamente inquinante: utilizza principalmente risorse non rinnovabili, per lo più petrolio per la produzione di fibre sintetiche, fertilizzanti per la coltivazione del cotone e prodotti chimici nocivi per la produzione, tintura e finitura delle fibre e tessuti. Si prevede, secondo un report di Statista del 2022, che il valore di mercato del fast fashion aumenti vertiginosamente. Nel 2021 il valore mondiale corrispondeva a $91.3 miliardi, nel 2022 è cresciuto raggiungendo $99.23 miliardi e si stima che nel 2026 arrivi a $133.43 miliardi. Un incremento di questa portata, se non controllato nel modo corretto, comporterebbe un peggioramento dell’inquinamento ambientale. Inoltre è necessario notare che l’industria del tessile e della moda utilizza volumi d’acqua insostenibili. Il 20% dell’inquinamento industriale dell’acqua, sostiene la Banca Mondiale, proviene dalla tintura dei tessuti e dal loro trattamento. Analizzando il consumo per la produzione del singolo capo come una t-shirt o un paio di jeans, i litri impiegati superano le migliaia. L’esperta di sostenibilità Francesca Rulli ha affermato infatti che per produrre un paio di jeans servano 3800 litri di acqua, mentre per una t-shirt in cotone (proveniente da agricoltura intensiva) circa 2720 litri, la quantità che una persona mediamente dovrebbe consumare in due anni e mezzo.

Valore del mercato mondiale del fast fashion, previsioni fino al 2026 (in miliardi di dollari)

Valore del mercato mondiale del fast fashion, previsioni fino al 2026 (in miliardi di dollari) – fonte Statista

La produzione dell’industria tessile è inquinante

L’inquinamento provocato dai mezzi di trasporto e dalla produzione non può essere sottovalutato: la rapidità con cui si producono e trasportano i prodotti non conosce eguali. L’utilizzo di formaldeide, pesticidi e agenti cancerogeni, il consumo elevato di energia elettrica e la scarsa attenzione alle fonti rinnovabili non migliora la situazione. Prendendo in analisi tutti questi fattori, l’industria della moda è tra le più inquinanti. Il report della Textile Exchange dell’ottobre 2022 afferma che la produzione di fibre globali ha raggiunto la soglia di 113 milioni tonnellate nel 2021. Se la situazione rimarrà invariata si presuppone che nel 2030 si arrivi a 149 milioni. Di queste 113 milioni di tonnellate, il 64% corrisponde a materiali sintetici (54% poliestere, 5% poliammide e 5,2% altri), il 28% a tessuti vegetali (22% cotone), il 6,4% ai manmade cellulosic Fiber (5,11% viscosa) e il restante 1,62% alle fibre animali (0,92% lana). È chiaro dunque che il poliestere, nonostante sia un tessuto altamente inquinante, è ancora tra i materiali più utilizzati. Una bassa qualità inoltre è sinonimo di un prodotto scadente o di facile usura, che porta il consumatore ad utilizzarlo poche volte non dandogli il giusto valore e successivamente, a gettarlo via. Questo circolo vizioso è da aggiungere al forte impatto che l’industria del tessile ha sull’ambiente.

Per produrre un singolo paio di jeans servono 3800 litri di acqua, più di quanto una persona consumi in 2 anni e mezzo

La svolta sostenibile del fast fashion

Molte aziende stanno lavorando per produrre in modo più sostenibile: alcuni esempi sono l’utilizzare il poliestere riciclato e materiali in fibre naturali come la viscosa. Il noto marchio fast fashion svedese H&M ha iniziato nel 2002 un programma di report sulla sostenibilità all’interno dell’azienda, creando successivamente una linea di abbigliamento interamente green con componenti in cotone sostenibile, riciclato e organico. Nel suo ultimo report l’azienda ha affermato che nel 2020 è stato raggiunto l’approvvigionamento al 100% di cotone proveniente da fonti sostenibili. Nel dettaglio, il cotone sostenibile è diviso in: 78,3% better cotton, 19,9% organico e 1,8% riciclato. Nonostante ciò continuano a migliorarsi per utilizzare in maniera sempre maggiore materiali riciclati e cotone organico. Nel 2021 assistiamo già ad alcuni miglioramenti: 71,3% better cotton, 21,7% organico, 7% riciclato. In aggiunta, H&M è nella top 4 tra i venti marchi con più trasparenza al mondo. Offre infatti un’ottima chiarezza sul ciclo produttivo, la provenienza dei materiali e la qualità del lavoro.

Percentuale dell’uso di cotone sostenibile di H&M dal 2011 al 2021, per tipo di materiale

Percentuale dell’uso di cotone sostenibile di H&M dal 2011 al 2021, per tipo di materiale – fonte Statista

Fashion revolution

Oltre all’impegno delle aziende vi è anche una presa di coscienza dei consumatori. La Fashion Revolution, infatti, ha commissionato nel 2020 una survey (Consumer Survey Report) a 5.000 persone tra i 16 e i 75 anni provenienti da differenti Paesi europei (Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Spagna). In questa indagine venivano proposti dei quesiti per capire se la trasparenza e la sostenibilità della filiera avessero un impatto sugli acquisti dei consumatori. I risultati ottenuti danno una risposta affermativa: ai consumatori sta a cuore la tutela dei diritti dei lavoratori, non tollerando il lavoro minorile. Rifiutano l’utilizzo di sostanze chimiche nocive, ritengono necessario un certificato di sostenibilità e che si conosca l’impatto ambientale che provoca ogni singolo capo d’abbigliamento. Un ottimo segnale che ci fa ben sperare per acquisti responsabili, consapevoli e senza eccessivi sprechi. La parola d’ordine per un fast fashion sostenibile è trasparenza. I progressi, però, vanno a rilento: i dati analizzati dalla Fashion Revolution nel Fashion Transparency Index 2022 dimostrano che tra i 250 marchi di abbigliamento fast fashion più famosi al mondo si ottiene un punteggio medio di trasparenza di circa il 24%. Nessun brand è riuscito a raggiungere più dell’80%: al primo posto della classifica troviamo OVS, con il 78%.

Le compagnie fashion più trasparenti nel 2022

Nessun brand ha raggiunto più dell’80% in termini di trasparenza. Fonte: Statista, rielaborazione Centro Studi

L’obiettivo 2030 del fast fashion sembra lontano

L’obiettivo preposto dalla Fashion Revolution è di fornire collezioni 100% sostenibili entro il 2030. È necessario però che le aziende lavorino duramente per ottenere tale risultato. Oltre ad attuare una politica di produzione più etica e sostenibile, è anche importante che le aziende riducano la quantità di merce invenduta. La soluzione sembra essere stata trovata con collezioni sostenibili “essential” o “Never out of Stock”. Così facendo si possono continuare a fabbricare in gran quantità riducendo notevolmente gli avanzi, poiché i capi saranno venduti anche nella stagione successiva. Un’altra possibilità è quella di mantenere i prezzi dei capi “green” più bassi o uguali agli altri così da poter rendere sempre più accessibile l’acquisto.

L’abbigliamento sostenibile è la chiave per il futuro

Secondo i dati dello Statista Consumer Market Outlook, nel 2021 la vendita di abbigliamento sostenibile è del 3,9% ma questo valore dovrebbe aumentare arrivando al 6,1% nel 2026. Ad oggi le percentuali sono ancora basse ma le strategie da poter attuare sono molte ed è essenziale fare un primo passo, uno sforzo, un investimento per l’unico pianeta che abbiamo.

Questo post è stato redatto da Valeria Trapani, studentessa del corso di laurea magistrale in Scienze Internazionali – China and Global Studies – presso l’Università di Torino, nell’ambito di uno stage presso il Centro Studi Unione Industriali Torino. Ecco come si presenta.

Sono una studentessa magistrale di Scienze Internazionali e ho conseguito la laurea triennale in Lingue e letterature moderne indirizzo orientalistico. Appassionata al mondo e alla cultura cinese ho intrapreso sin dalla triennale lo studio della lingua cinese e in magistrale sto approfondendo il ruolo di questo grande Paese nelle dinamiche economiche e geopolitiche mondiali. In un futuro mi piacerebbe lavorare per le aziende italiane che intraprendono scambi con la Cina e il resto del mondo. Lo stage presso il Centro Studi Unione Industriali Torino mi ha permesso di venire a contatto con il mondo della ricerca, mettere in pratica le conoscenze acquisite durante il mio percorso di studi e acquisire la giusta preparazione sul mondo aziendale.

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