Oggi anche la Cassa Integrazione è messa a dura prova dal Covid-19. Dopo quella sanitaria imprese e lavoratori devono affrontare un’emergenza occupazionale senza precedenti. Cercano “a fatica” di farlo districandosi in un autentico ginepraio. I tempi sono davvero maturi per una seria riforma degli ammortizzatori sociali?
L’ emergenza occupazionale determinata dal Covid-19 fa emergere con fragore tutti i paradossi del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Un sistema che da anni è soggetto a continue riforme che non ne risolvono le distorsioni, ma ogni volta aggiungono contraddizioni, nel pur lodevole sforzo di aiutare aziende e lavoratori in difficoltà.
Fin dagli inizi degli anni novanta si è tentato di trasformare gli ammortizzatori sociali in strumenti di politica attiva e non di mero assistenzialismo. Dopo trent’anni siamo però ancora al punto di partenza, salvo modesti cambiamenti che hanno aumentato disparità e confusione senza apportare sostanziali vantaggi.
Il ginepraio degli ammortizzatori sociali, il problema italiano
A causa delle diverse discipline applicate ai settori, il ginepraio italiano dei trattamenti di sostegno al reddito determina forti differenze di costo per le imprese e di indennità tra i lavoratori. Un’autentica “babele” di discipline, la cui comprensione è circoscritta ad un limitato numero di operatori amministrativi delle risorse umane, delle associazioni datoriali o a qualche esperto consulente del lavoro.
C’è la cassa ordinaria, straordinaria, la solidarietà, il Fondo di Integrazione salariale, i Fondi speciali di settore, gli enti bilaterali dell’artigianato, dell’edilizia e infine la cassa in deroga.
In queste discipline troviamo poi incongruenze eclatanti come quando un’industria accede alla cassa ordinaria e le imprese che svolgono i servizi di pulizie civili non possono accedere alla stessa cassa, mentre ne ha diritto l’azienda che gestisce la mensa.
Differenze e incongruenze che costringono gli enti ad adottare procedure, iter burocratici, verifiche e controlli che sovraccaricano il loro lavoro, rallentando i tempi di autorizzazione e pagamento delle indennità.
In questo periodo ne è prova evidente la cassa in deroga che per il concorso di competenze tra Inps e Regioni (ognuna con la propria specifica procedura!) ha generato anche forti tensioni tra gli enti pubblici e tra Inps e sistema delle imprese.
Quanto costa la cassa integrazione. E chi la paga?
La sedimentazione normativa ha generato negli anni un sistema così complesso che spesso anche gli esperti in materia non ricordano più il motivo per cui siamo finiti così, salvo poi ritrovarsi nella più semplicistica delle risposte:” è una questione di costi”. Ma è davvero così?
L’entità e la durata dei trattamenti dipende da quanto pagano le aziende in termini di contributi e proprio qui cominciano complicazioni e contraddizioni, perché le discipline sono diverse per settori e comparti merceologici.
Ma se un’azienda va in crisi e sospende il lavoratore con la cassa integrazione, perché l’operaio tessile, la commessa o l’autista devono avere trattamenti diversi? E perché se fanno gli stessi lavori come somministrati da un’agenzia cambia ancora il sistema?
Le aziende del sistema Confindustria di solito utilizzano la cassa ordinaria e straordinaria che sono finanziate con contributi mensili a carico delle imprese e in piccola parte dei lavoratori.
Quindi è una forma di assicurazione per cui l’impresa paga un premio mensile proporzionato alle sue dimensioni e un contributo aggiuntivo quando la usa collocando i lavoratori in cassa.
Quanto costa questo premio e contributo alle Aziende?
Senza entrare in dettagli troppo sofisticati possiamo stimare che un’azienda di 100 dipendenti con una retribuzione mensile media di 1.800 euro versa ogni anno all’ Inps quasi 50.000 euro, anche se non utilizza la cassa. Se poi colloca i lavoratori in cassa integrazione verserà un contributo aggiuntivo tra il 9% e il 15% della retribuzione persa dai lavoratori, in funzione della sua durata.
Il saldo tra contributi versati dalle imprese e indennità di cassa pagate dallo Stato ai lavoratori negli anni normali è sempre in attivo per le casse statali.
Niente di più sbagliato quindi affermare che la cassa integrazione “è pagata tutta con i soldi dello Stato”. Principio che spesso si sente affermare dai non addetti ai lavori.
Emergenza e prospettive
La cassa integrazione “Covid” è stata invece finanziata con stanziamenti statali eccezionali che permettono di considerare “neutro” il periodo coperto da questo istituto anche perché a moltissime aziende è stata imposta per mesi la sospensione totale delle attività e il blocco dei licenziamenti.
Operazione socialmente ragguardevole, figlia dell’emergenza sanitaria, che non potrà continuare a lungo per motivi economici e finanziari sui conti dello Stato, nonostante le aperture da parte delle Istituzioni Europee.
Oggi pertanto lo Stato avrebbe una straordinaria occasione di mettere mano all’articolazione degli ammortizzatori sociali riorganizzando settori, trattamenti, procedure e indennità Share on XSolo a fronte di una vera riforma potremo in futuro evitare tutte le contraddizioni che sono emerse in questa delicata fase della nostra vita economica e sociale, una su tutte l’attesa di pagamento per mesi che i lavoratori della cassa in deroga hanno dovuto sopportare.
I tempi sono davvero maturi per rimettere mano ad una seria riforma degli ammortizzatori sociali che sia indirizzata ad una parità di oneri per le imprese, unicità di trattamenti di sostegno al reddito accompagnati da un sistema di politiche attive che assista il lavoratore.
Lavoratore da assistere anche con processi di formazione o di occupazione in lavori di pubblica utilità e con una semplificazione della burocrazia nella quale è sempre più complicato districarsi e che crea enormi costi di gestione amministrativa per le imprese.
Semplificare le procedure sarebbe utile anche per lo Stato, per occupare le proprie risorse umane in attività meno burocratiche e più produttive, soprattutto in tempi di carenza di risorse finanziarie.
Proprio quella carenza di risorse che rischia di diventare il minimo comun denominatore del Paese in tutte le sue componenti, aziende, Stato e cittadini.