Non basta che l’economia sia circolare perché faccia strada

economia circolare

Economia Circolare | Alcune riflessioni sul tema a partire dalla mia esperienza di accompagnamento delle imprese nella gestione ambientale delle proprie attività.

L’occasione di parlare di economia circolare nasce dalle recenti pubblicazioni della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e della Fondazione Symbola finalizzate a descrivere lo stato di salute dell’economia green nelle sue diverse sfumature, con un occhio particolare all’evoluzione del contesto nazionale.

Il quadro che emerge da ambedue le ricerche è incoraggiante: in diversi ambiti l’Italia ha eccellenze che la portano a collocarsi in ottima posizione nel contesto europeo, a titolo di esempio nel campo dell’uso efficiente dell’energia e nel riutilizzo e recupero dei rifiuti.

Proprio su quest’ultimo punto è evidente come uno dei pilastri portanti del tema più ampio della Green economy sia costituito dalla necessità di potenziare in chiave circolare il flusso delle diverse attività economiche. Mi rendo conto di banalizzare un tema complesso, non me ne vogliano i cultori della materia, ma si tratta, a partire dalle fasi di progettazione sia di prodotti e servizi che dei processi produttivi, di rendere massimo, in funzione dei vincoli tecnici specifici di ogni comparto, il recupero e riutilizzo di risorse e minimo lo spreco. Questo può avvenire attraverso azioni sviluppate sia a livello di micro sistemi, ad esempio il singolo processo o stabilimento, oppure a livello di sistemi di maggiore estensione e complessità.

Su questo tema strategico la Commissione Europea ha adottato a fine 2015 la Comunicazione “L’anello mancante: un piano d’azione europeo per l’economia circolare” che ha previsto, tra l’altro, una revisione in funzione dei principi dell’economia circolaredelle direttive vigenti in materia di rifiuti, imballaggi, discariche, veicoli fuori uso, pile e accumulatori, di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

L’economia circolare non nasce oggi.

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Fino ad oggi, durante tutta la mia storia professionale, ho avuto la fortuna di operare in un territorio, l’area della Città metropolitana di Torino, caratterizzata da una forte connotazione industriale, dove fin dall’inizio del secolo scorso esistevano imprenditori che, con carri trainati da cavalli, passavano negli stabilimenti metalmeccanici per raccogliere i residui metallici delle lavorazioni per poi venderli alle fonderie di seconda fusione. La stessa cosa avveniva in altre aree del paese, con connotazioni specifiche a seconda della vocazione industriale dei singoli territori, e gli esempi potrebbero essere numerosi.

Una seconda osservazione deriva dalla frequentazione degli stabilimenti manifatturieri delle imprese associate alla nostra Unione: non sprecare risorse, recuperare tutto ciò che è tecnicamente ed economicamente possibile, fa parte delle caratteristiche intrinseche del fare impresa, prima ancore che per ragioni di carattere ambientale, per ragioni di bilancio.

Evidentemente la conoscenza tecnica e scientifica si è sviluppata in modo significativo anche in questo settore e nuove opportunità di miglioramento sono oggi disponibili, ma penso sia importante tenere a mente queste due semplici constatazioni appena esposte.

Credo infatti che non tenerne conto, come a volte si ha un po’ la sensazione che avvenga, possa indurre a non fare tesoro a sufficienza di una storia ricca sia in termini di buone pratiche che di errori compiuti, e portare a interventi regolatori che rischiano di generare più danni che benefici.

Di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno.

Cerco ora di spiegare meglio il mio pensiero concentrando la riflessione sui temi che ruotano attorno alla gestione dei residui dei processi produttivi, a mio giudizio, uno degli elementi strategici per un’evoluzione in chiave circolare della nostra economia.

La questione del recupero dei rifiuti e delle norme che lo regolano è annosa e travagliata: si parte dal DPR 915/1998 e dalla successiva introduzione delle materie prime secondarie, e si arriva fino ai nostri giorni con il DLgs 152/2006, i sottoprodotti e l’”end of waste”.

Durante questo percorso, ad ogni svolta della normativa, è sempre stato facile trovarsi tutti d’accordo se ci si fermava alla considerazione dei principi generali formulati nei singoli provvedimenti. I problemi sorgevano normalmente a partire dagli articoli successivi che definivano regole, vincoli operativi e aspetti formali. Problemi che si amplificavano e moltiplicavano in funzione del caleidoscopio di interpretazioni delle varie autorità compenti locali e, in caso di contenziosi, della magistratura.

Norme nate per promuovere l’economia circolare spesso non hanno raggiunto in pieno il loro obiettivo e, in alcuni casi, hanno spinto in direzione contraria le imprese che, piuttosto che rischiare contestazioni pesanti sotto il profilo sia delle responsabilità che della propria immagine, hanno preferito continuare o ritornare a conferire i propri residui in discarica.

Nuove regole sì, ma soprattutto la necessità di un salto culturale collettivo.economia circolare

È evidente che la normativa in materia cerca di bilanciare diverse esigenze, incentivare comportamenti virtuosi in ottica circolare e in parallelo prevenire abusi non solo potenzialmente dannosi per l’ambiente, ma anche lesivi di una corretta concorrenza tra i diversi operatori del mercato.

La mia sensazione è che uno dei problemi centrali della questione stia tutto qui, e cioè riuscire a trovare un punto di equilibrio che, rendendo più semplice ed agevole la gestione operativa di questi residui, rappresenti una spinta reale per le imprese a percorrere questa strada.

Inoltre, non sono pochi i residui industriali che potrebbero essere ancora oggi valorizzati secondo i principi dell’economia circolare se solo la gestione delle imprese che li producono fosse meno esposta a interpretazioni soggettive basate non tanto sulla validità sotto il profilo ambientale delle prassi attuate quanto su aspetti meramente formali.

Un quadro di riferimento semplice e chiaro, poche regole operative condivise e nessun aspetto formale inutile, possono davvero fare la differenza, ma richiedono nel nostro paese un salto culturale collettivo: sarà infatti difficile incentivare l’economia circolare in modo efficace coltivando il sospetto che dietro ogni attività di recupero possano nascondersi finalità non legittime. Tali comportamenti vanno perseguiti, nell’interesse di tutti, ma attraverso gli strumenti adeguati a disposizione degli organi preposti.

Tornado alla metafora del titolo di questa breve riflessione, perché l’economia circolare percorra la strada che tutti auspichiamo occorre rimboccarci le maniche e fare lo sforzo di eliminare le deviazioni inutili, le buche e i chiodi seminati sul percorso.

About Paolo Piagneri

Paolo Piagneri | Responsabile del Settore Ambiente dell’Unione Industriale di Torino | Presidente della Commissione Ambiente dell'UNI | 30 anni di esperienza a supporto delle imprese nella gestione ambientale | Svolgo attività di rappresentanza, informazione, formazione, consulenza, progettazione e coordinamento. In questi anni ho avuto il privilegio di conoscere molte diverse tipologie di attività economiche sotto il profilo delle loro interazioni con l’ambiente, un bagaglio di esperienza che cerco di condividere e mettere a frutto nella mia attuale attività professionale.

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