Un’estenuante crisi pandemica, lo scoppio della guerra in Ucraina e l’aumento esponenziale delle tensioni geopolitiche hanno messo alle corde le reti del commercio globale, rivelando i limiti di un sistema internazionale obsoleto e deteriorato. Il mondo che abbiamo conosciuto dalla fine della Guerra Fredda in poi, con le sue ideologie e strutture portanti, può essere arrivato al suo capitolo conclusivo? Per arginare le conseguenze di questa crescente incertezza, molti stati stanno assumendo atteggiamenti sempre più difensivi. In questo contesto, l’emergere di una nuova divisione in blocchi sembra essere una concreta possibilità. Secondo alcuni, la globalizzazione avrebbe invertito la sua rotta o sarebbe a rischio.
Questo è ciò che è stato detto agli azionisti lo scorso marzo da Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, società americana di investimento e gestione patrimoniale tra le più grandi al mondo, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. La medesima presa di posizione è stata poi confermata anche al Forum economico mondiale di Davos da Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, che ha messo in guardia da un’imminente “frammentazione geoeconomica“. I Paesi e le aziende, ha detto, stanno “rivalutando le catene di approvvigionamento globali” e annullando decenni di integrazione del commercio internazionale.
Questa nuova linea di pensiero largamente condivisa sostiene che la globalizzazione, lungi dal rendere i Paesi economicamente più forti, li espone al contrario a rischi eccessivi. L’interdipendenza economica non è più vista come una virtù, ma come un vizio. Il nuovo mantra è che ciò di cui i Paesi hanno bisogno è l’indipendenza, con un’integrazione limitata al massimo a una ristretta cerchia di nazioni amiche. Per comprendere se stiamo effettivamente assistendo ad una frenata della globalizzazione e del commercio internazionale è necessario analizzare, partendo dalla cause, l’innalzamento delle tensioni geopolitiche e l’aumento della frammentazione degli scambi economici.
In questo post discuterò l’ipotesi della “deglobalizzazione” sulla base dei dati esistenti, cercando di valutarne possibili effetti e ripercussioni.
L’AUMENTO DELLE TENSIONI INTERNAZIONALI
Il caso Brexit e lo smarrimento dell’Europa
Uno dei primi segnali di questo crescente sentimento disgregativo è arrivato proprio all’interno dell’Unione Europea, culla dell’integrazione e portavoce mondiale del multilateralismo e della cooperazione. Nell’estate del 2016 il Regno Unito ha votato l’uscita dell’UE, in seguito ad un referendum consultivo entrato definitivamente in vigore nel 2020. La così detta Brexit ha segnato in modo profondo le fondamenta delle istituzioni europee, già debilitate dalla precedente crisi dei debiti sovrani. L’Ue ad oggi è ancora priva, o in cerca, di identità e non ha saputo rispondere in modo corale e tempestivo a nessuna delle emergenze collettive sorte di lì in avanti.
La competizione Usa-Cina e la guerra daziaria
L’elezione di Donald J. Trump alla presidenza della Casa Bianca ha drasticamente modificato l’orientamento della politica estera americana e della governance internazionale. Sotto la guida erratica del presidente repubblicano, al grido di “America First”, gli Stati Uniti sono ritornati verso un percorso di spiccato mercantilismo e isolazionismo. Hanno rescisso gran parte dei propri impegni internazionali e iniziato una sanguinosa guerra daziaria con Pechino, accusata di aver agevolato le proprie esportazioni con politiche di dumping. Anche il successore Biden, democratico, non è riuscito a ricucire le spaccature interne né tanto meno le relazioni con la Cina, che sono invece progressivamente peggiorate. D’altra parte, nella stessa direzione di contrapposizione si muoveva anche la Cina, sotto la guida di Xi Jinping, con una forte caratterizzazione nazionalistica. Questo rapporto conflittuale tra le due maggiori potenze del sistema internazionale ha influenzato negativamente la cooperazione internazionale, alimentando le tensioni reciproche ed esacerbando le divisioni ideologiche tra i blocco occidentale e gli stati non democratici.
La crisi pandemica
Lo scoppio della pandemia del Covid-19 è stata un evento anomalo e catastrofico che ha profondamente influenzato la vita sociale ed economica di ogni cittadino e nazione. La crisi ha messo a nudo le reali vulnerabilità del commercio internazionale, causando carenze di prodotti e strozzature nelle forniture di beni. Il blocco improvviso e soprattutto inaspettato delle attività economiche ha provocato un calo repentino degli scambi internazionali e della produzione di merci, dimostrando il fragile equilibrio su cui poggia la rete economica globale, dove la mutua interdipendenza lega le sorti degli stati gli uni con gli altri.
La guerra in Ucraina
L’invasione russa del Donbass e il conseguente scoppio della guerra in Ucraina ha rappresentato l’apice dell’ escalation di tensioni a livello internazionale. Il conflitto ha riportato alla luce gli orrori di una guerra su larga scala in Europa e ha profondamente lacerato le relazioni tra il blocco occidentale e la Russia. Mosca è stata colpita attraverso ingenti sanzioni economiche, confische, congelamenti di beni ed infine espulsa dal circuito bancario internazionale SWIFT. Il conflitto ha inoltre provocato gravi turbolenze economiche, causando l’impennata dei prezzi dell’energia e delle materie prime, e ha convinto molte imprese a ristrutturare le proprie catene di fornitura globali, in modo da ridurre la dipendenza da attori potenzialmente avversi.
Le tensioni mediorientali
Il riaccendersi del conflitto Israelo-palestinese ha riportato l’attenzione internazionale verso il Medio-oriente e rischia ora di spaccare ulteriormente la comunità internazionale. L’occidente si è fermamente posto a sostegno di Tel Aviv. Altri attori, tra cui Cina, India e Russia hanno condannato ogni forma di violenza da entrambi i fronti. Gran parte del mondo arabo è invece insorto a favore della Palestina, rimarcando il proprio sostegno attraverso enormi manifestazioni. Il conseguente attentato di matrice islamica avvenuto a Bruxelles ha dimostrato come le tensioni, mai sopite, tra il mondo occidentale e la sfera islamica più estremista esulino dai soli confini del conflitto, manifestandosi come un vero e proprio scontro religioso ed ideologico che rischia di esacerbare ulteriormente le posizioni in campo.
Multipolarismo e nuovi attori emergenti
Come evidenziato da gran parte degli studiosi di relazioni internazionali l’aumento delle tensioni globali è anche riconducibile al ribilanciamento dei rapporti di forza in atto all’interno dell’ordine globale. Il predominio unilaterale statunitense ed occidentale è terminato, e nuovi attori stanno velocemente aumentando la propria influenza nel contesto internazionale. Su tutti, la Cina è il paese che ha avuto sicuramente lo sviluppo più imponente negli ultimi tre decenni. Il suo PIL era inferiore a quello dell’Italia all’inizio degli anni ’90 mentre oggi è superiore di quasi nove volte. Altri paesi tra i quali l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Messico, il Vietnam e la Turchia stanno crescendo velocemente, diventando sempre più centrali nelle reti del commercio globale. Nei prossimi decenni si prospetta un ordine internazionale con più poli di influenza, con molti attori rilevanti a livello regionale o globale. Di conseguenza si verificherà, come già si può notare, un aumento della conflittualità all’interno del sistema.
LA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE
Il modello dell’iper-globalizzazione basato su catene del valore di portata mondiale, che fino a pochi anni fa pareva destinato a caratterizzare incontrastato il sistema della produzione e degli scambi, si trovava messo improvvisamente in discussione e il suo futuro appare quantomeno nebuloso. Parole come “re-shoring”, “near-shoring” e “friend-shoring” hanno preso sempre più piede nell’ultimo periodo. Esse rappresentano la volontà di molti governi e imprese di promuovere una ristrutturazione “amichevole” del commercio e delle catene di approvvigionamento.
In un mondo attanagliato da crescenti tensioni e in cui le crisi sembrano essere ormai all’ordine del giorno, la preoccupazione di molti è che il commercio internazionale possa essere utilizzato tra i paesi come un mezzo di coercizione o di ritorsione, come avvenuto tra la Russia e l’Europa con il blocco delle forniture di gas e tra la Cina e gli Stati Uniti con l’innalzamento di barriere tariffarie reciproche. Se quindi la globalizzazione dei processi economici per come l’abbiamo conosciuta è terminata, il modo migliore per mettersi al riparo dalle intemperie esterne è quello di spostare la produzione, le forniture e i rapporti commerciali in paesi vicini o amici, ma soprattutto ideologicamente affini.
Per capire quale sia la reale portata di questo processo di ristrutturazione dei processi economici che sta avvenendo e se, effettivamente, la globalizzazione sia o meno in ritirata, è necessario indagare e analizzare in modo specifico alcuni andamenti economici.
Commercio ed esportazioni globali
Contrariamente a quanto queste tendenze suggerirebbero, il commercio e le esportazioni internazionali continuano a crescere a ritmi elevati. Una decisa flessione è stata registrata solo nel 2020, causata dall’avvento della pandemia che ha forzato il blocco degli scambi internazionali. Nonostante ciò il PIL aggregato a livello internazionale è cresciuto del 6,02% nel 2021, dovuto in gran parte al crollo repentino registrato nell’anno precedente. Nel 2022 l’incremento è stato più contenuto, con un +3,08%. Anche le esportazioni totali hanno registrato una decisa impennata, superando i livelli pre-Covid. La crescita in questo periodo è stata del 9,66% e 5,58% . Le prospettive attese del 2023 invece sono lievemente in calo. Ad ogni modo, a discapito di tendenze geopolitiche disgregative, questi dati suggeriscono comunque che il commercio globale è ancora energico e, soprattutto, in espansione.
Merci e servizi
Secondo i sostenitori della de-globalizzazione un segno inconfutabile di tale processo risiede nel calo registrato dal commercio mondiale in correlazione al PIL. E’ altresì vero che, dopo il suo picco nel 2008, tale rapporto è progressivamente sceso. Tuttavia questo potrebbe non essere un dato significativo per dimostrare una ritirata degli scambi internazionali. Infatti, i progressi tecnologici come il commercio elettronico, l’automazione, l’intelligenza artificiale, la robotica e lo smart-working hanno trasformato molti processi produttivi ad alta intensità di lavoro in processi ad alta intensità di capitale e conoscenza, con un minore contenuto di componenti materiali che debbano essere trasportate.
Inoltre, le differenze nei costi di produzione, e soprattutto nel costo del lavoro, si sono enormemente ridotte negli ultimi decenni, indebolendo Il commercio concepito per trarre vantaggio dai differenziali del costo del lavoro tra i paesi . In parallelo l’ importanza dei servizi e dei beni immateriali nell’economia moderna è cresciuta progressivamente, alimentando la falsa impressione di un processo di deglobalizzazione. Il commercio di servizi e beni immateriali è in accelerazione da 15 anni e rappresenta una quota sempre maggiore dell’attività economica globale.
Il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina
Nonostante le crescenti tensioni reciproche, una guerra daziaria in corso e le interruzioni legate alla pandemia, il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina ha continuato a crescere a livelli record. Nel 2021 ha raggiunto il valore di 657 miliardi di dollari , rispetto ai 557 del 2019. Inoltre, la cifra di quest’anno supererà quasi sicuramente il picco di 659 miliardi di dollari stabilito nel 2018. Anche le importazioni statunitensi dal gigante asiatico hanno registrato un’impennata, ritornando ai livelli pre-pandemici. Gli Stati Uniti sono ancora il principale partner commerciale di beni e mercato di esportazione della Cina. Allo stesso modo, Pechino è ancora il principale partner commerciale degli Stati Uniti, oltre ad essere il suo terzo mercato di esportazione.
Nonostante un allontanamento politico sempre più marcato, le due più grandi economie mondiali sono ancora fortemente interconnesse e reciprocamente dipendenti. La competizione commerciale tra i due paesi si è registrata principalmente in settori “critici” per la sicurezza nazionale, come le telecomunicazioni e i semi-conduttori. Perciò il tanto auspicato decoupling non è ancora avvenuto. Considerando poi la mutua rilevanza tra le due economie, non dovrebbe verificarsi neanche nel breve periodo.
Valore import statunitense di merci cinesi (in miliari di dollari)
Gli investimenti globali in controtendenza
Rispetto agli altri indicatori quest’anno gli investimenti globali hanno registrato un trend negativo. Dopo una forte ripresa nel 2021, gli investimenti diretti esteri sono diminuiti del 12% nel 2022, arrivando a 1,3 trilioni di dollari. La causa principale è stata la sovrapposizione di crisi globali. La guerra in Ucraina, gli alti prezzi di cibo ed energia e l’impennata del debito pubblico hanno segnato profondamente gli investimenti. Il calo è stato avvertito soprattutto nelle economie sviluppate, dove gli investimenti diretti esteri sono diminuiti del 37% a 378 miliardi di dollari.
Nonostante ciò i flussi verso i paesi in via di sviluppo sono cresciuti del 4%, anche se in modo non uniforme. Alcuni grandi paesi emergenti hanno attirato la maggior parte degli investimenti, mentre i flussi verso i paesi meno sviluppati sono diminuiti. Positivo è stato anche l’aumento del 15% del numero di progetti di investimento greenfield nel 2022 , in crescita nella maggior parte dei settori. A trarne beneficio soprattutto quelli alle prese con le sfide della catena di fornitura, tra cui l’elettronica, i semiconduttori e l’automotive . Tuttavia il calo degli investimenti non può essere considerato un elemento di prova schiacciante per il rallentamento della globalizzazione. Essi infatti seguono in modo più elastico l’andamento della geopolitica internazionale e i cambiamenti economici.
Accordi commerciali regionali
Gli RTAs (Regional Trade Agreements) sono un aspetto fondamentale dell’organigramma istituzionale e burocratico che regola il commercio internazionale odierno. Gli accordi commerciali regionali sono cresciuti esponenzialmente dagli anni 90’ in poi e oggi 360 di essi sono attivi sotto la giurisdizione del WTO. Gli RTAs hanno permesso di progredire nella cooperazione e nell’integrazione in materia di politica commerciale. Grazie ad essi si è registrato un generale abbassamento delle imposizioni daziarie e delle barriere tariffarie. La conseguenza diretta è stata l’esplosione degli scambi internazionali e l’apertura del commercio globale.
Recentemente l’integrazione economica è progredita nella regione dell’Asia-Pacifico e in Africa. ll Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership (CPTPP) Agreement è strato istituito nel 2018. I membri dell’ASEAN e altre sei membri del WTO hanno invece firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership Agreement (RCEP) nel 2020. In Africa, l’Area di Libero Scambio Continentale Africano (AfCFTA) è entrata in vigore a maggio 2019. Cile, Colombia, Messico e Perù hanno istituito l’Alleanza Pacifica. L’Unione Europea sta invece continuando a lavorare su accordi di libero scambio con Australia e Nuova Zelanda. Questo processo, a discapito delle tensioni geopolitiche, è una chiara testimonianza del fatto che la globalizzazione è viva. In più, dimostra inequivocabilmente come la maggior parte dei paesi creda ancora fortemente nell’integrazione degli processi economici internazionali.
DE-GLOBALIZZAZIONE O RI-GLOBALIZZAZIONE?
I dati sino ad ora analizzati hanno messo in luce un contesto globale ambivalente. Se da un lato il commercio internazionale è ancora vivace, gli investimenti hanno invece risentito maggiormente delle pressioni geopolitiche. La crescente militarizzazione delle relazioni e delle politiche commerciali ha messo in dubbio la tesi di lunga data secondo cui il commercio internazionale e la globalizzazione supportino un percorso positivo e di pacificazione, spingendo quindi molti governi ad attuare politiche di ristrutturazione e contrazione delle catene di approvvigionamento.
Oggi i paesi sono comprensibilmente più preoccupati di diventare dipendenti da potenziali avversari, soprattutto nei settori critici, ma limitare il commercio internazionale a pochi partner comporta anche alti costi opportunità: innalzamento dei prezzi, opzioni di esportazione più basse, allocazione delle risorse meno efficienti e nuovi tipi di vulnerabilità dell’offerta. Inoltre, è fondamentale notare come mercati maggiormente profondi e diversificati rendono in realtà più difficile trasformare il commercio internazionale in un’arma, riducendo la dipendenza dei paesi da ogni singola fonte di approvvigionamento.
La nuova geografia degli scambi internazionali
Il mondo di oggi è già globalizzato e altamente interconnesso, per cui tornare indietro potrebbe essere più complesso del previsto. Posto che fare previsioni accurate è molto difficile, ciò che stiamo osservando, più che una riduzione del commercio e un ritorno al protezionismo o a una marcata regionalizzazione, sembra possa essere associato più semplicemente ad una ridefinizione dei flussi commerciali: una nuova geografia degli scambi i cui contorni “politici” saranno tracciati dagli accordi preferenziali che sono stati da poco conclusi o che sono in via di negoziazione. Invece di essere una ritirata della globalizzazione in sé, è probabile che ciò che sta avvenendo sia invece un nuovo processo di ri-globalizzazione, provocato sia dai cambiamenti dei rapporti di forza all’interno dell’ordine internazionale, ma anche dalla crescita esponenziale di nuovi settori economici, come i servizi, i semiconduttori, l’hi-tech e le tecnologie green.
La ristrutturazione delle catene globali del valore
A subire maggiormente queste tendenze sono state le catene globali del valore, forzate ad una ristrutturazione più o meno profonda. L’ordine commerciale internazionale sta diventando frammentato e multipolare e ciò significa che la geopolitica si insinuerà sempre più nei calcoli economici. Le interdipendenze e le vulnerabilità messe in luce dal COVID-19 e dallo scoppio della guerra in Ucraina hanno portato in primo piano le preoccupazioni relative alla sicurezza economica, spingendo molti paesi e aziende ad attuare un processo di “ally shoring” o “nearshoring”, in modo da rendersi più resilienti agli shock esterni.
Per cui, dove possibile, segmenti della produzione sono stati rilocalizzati nuovamente nel paese d’origine o in paesi “amici”, in modo da diminuire le probabilità che le crescenti ostilità tra due attori possano intralciare il regolare svolgimento delle attività economiche e commerciali. L’ Unione Europea ad esempio, trovatasi in enorme difficoltà dopo lo scoppio della guerra in Ucraina per via del taglio delle forniture di gas imposto da Mosca, ha attuato politiche di ristrutturazione delle catene di approvvigionamento verso nuovi paesi, per diminuire la dipendenza dalle materie prime russe. Nonostante ciò, i benefici della specializzazione e della ramificazione del commercio internazionale sono troppo grandi e i costi troppo alti per invertire la globalizzazione.
Vecchi e nuovi partner: il futuro del commercio internazionale
Le catene del valore globali che producono la maggior parte dei beni moderni sono così complesse ed estese che ricrearle a livello nazionale sarebbe sostanzialmente impossibile. Un caso emblematico è quello degli Stati Uniti: se da un lato le importazioni dalla Cina sono cresciute in termini assoluti, allo stesso tempo il loro valore in percentuale sul totale dell’import è diminuito. In particolare, ad aver ridimensionato significativamente la propria quota in ingresso sono state le esportazioni cinesi colpite dai dazi statunitensi.
Parallelamente, sembra che i Paesi che hanno registrato una crescita più rapida delle esportazioni verso gli Stati Uniti hanno anche avuto un commercio intra-industriale più intenso con la Cina in quegli stessi settori. Uno degli esempi principali di questi paesi è rappresentato dal Vietnam, con cui gli USA hanno da poco concluso un ampio accordo di cooperazione in occasione del viaggio di Joe Biden in Asia. Insomma, se questi segnali fossero indicazioni di trend duraturi, non staremmo assistendo a una vera e propria frammentazione del commercio internazionale ma a una sua ridefinizione, con la riduzione degli scambi commerciali diretti tra Washington e Pechino a vantaggio di un aumento degli scambi con partner minori ma legati ad entrambe le superpotenze attraverso le catene globali del valore.
I costi della frammentazione
Quando si parla di globalizzazione spesso si sottovaluta l’impatto che essa ha avuto nel definire le vite delle persone. Come processo in sé non vive unicamente di dinamiche economiche, ma possiede anche una forte dimensione culturale e sociale. La globalizzazione non si esprime solo nel poter investire nei mercati finanziari internazionali attraverso un click sul cellulare, ma anche dalla libertà, ormai data per scontata, di potersi muovere pressoché liberamente in ogni luogo o di poter ricevere notizie istantaneamente attraverso internet e i social network.
Per cui, come in un processo di rimpicciolimento spazio-temporale, ci si sente sempre più cittadini del mondo e in questo senso anche le problematiche esulano ormai dai piccoli confini nazionali e diventano globali. I cambiamenti climatici e la pandemia ne sono state un chiaro esempio. Per cui, quando si prospetta la recessione di tale processo di globalizzazione, bisogna innanzi tutto valutarne attentamente i costi.
La forza della coesione
Da una prospettiva puramente economica abbandonare i numerosi benefici che derivano dal commercio internazionale sarebbe certamente sconsiderato. Inoltre è difficile credere che la sicurezza globale sarebbe meglio tutelata se le principali potenze non avessero alcun interesse economico nella stabilità e prosperità delle altre e se non avessero istituzioni condivise in cui impegnarsi. Il commercio tra gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio, avvantaggia enormemente le persone e le imprese di entrambi i paesi. Inoltre unisce le superpotenze, sia a livello bilaterale che nei forum internazionali, fornendo un incentivo a cooperare dove possibile ed evitare conflitti.
Le sfide globali che si prospettano nei prossimi decenni avranno necessariamente bisogno di una gestione condivisa. Questioni come il cambiamento climatico, le migrazioni e le problematiche interconnesse alla gestione delle nuove tecnologie informatiche e delle innovazioni hi-tech non possono essere risolte unilateralmente. La competizione strategica è una realtà del mondo moderno, ma quel mondo diventerà invivibile senza una cooperazione strategica.
PROSPETTIVE FUTURE E NUOVE OPPORTUNITÀ
I ricercatori dell’WTO hanno stimato che se il mondo si dividesse in due blocchi economici separati, la conseguente riduzione del commercio internazionale e la perdita di produttività dovuta alla specializzazione e alle economie di scala ridurrebbe i redditi reali nel lungo termine di almeno il 5% in media rispetto all’attuale livello. Le perdite di produzione sarebbero di gran lunga maggiori di quelle causate dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009.
Se le potenze impareranno a gestire l’aumento della competizione migliorando la cooperazione in modo strategico, le opportunità non tarderanno ad arrivare. In un’economia in profonda trasformazione e ristrutturazione nuovi settori nel commercio internazionale stanno emergendo, su tutti quelli legati all’informatizzazione, alle intelligenze artificiali e alla la robotica, che cambieranno profondamente il rapporto con il lavoro e i processi produttivi. Nei prossimi decenni anche i mercati dei semiconduttori, dell’energia sostenibile e dell’aerospazio si prospetta che possano aumentare la propria importanza in modo consistente. Come in ogni periodo storico stiamo affrontando un’epoca di dubbi, cambiamenti e incertezze, ma pure oggi questa nuova era della globalizzazione ipertecnologica ed interconnessa porta con sé grandi occasioni ed opportunità. Sfruttarne i punti di forza è necessario, e quantomeno doveroso.
Questo post è stato redatto da Alessandro Festa, studente del corso di laurea magistrale in Scienze Internazionali –China and Global Studies– presso l’Università di Torino e la Tongji University di Shanghai, nell’ambito di uno stage presso il Centro Studi dell’Unione Industriali. Ecco come si presenta.
Sono Alessandro Festa, studente del doppio titolo magistrale in Scienze Internazionali, specializzato nell’area del sud-est asiatico. Di recente ho trascorso un semestre in Cina, presso la Tongji University, dove sono finalmente entrato in contatto con il contesto e la cultura soggetto dei miei studi.
Dopo la laurea triennale in Scienze Internazionali conseguita presso l’Università degli Studi di Torino, ho deciso di continuare l’indirizzo per approfondire la mia conoscenza teorica e metodologica, in modo da poter interpretare criticamente i fenomeni politici, economici e sociali internazionali, con un focus specifico sulla Cina e sul contesto asiatico.
Le mie aspirazioni lavorative includono principalmente il mondo della consulenza presso grandi compagnie del settore nel contesto italiano, ma anche in quello internazionale. A tal fine, il tirocinio presso l’Unione Industriali è stato fondamentale per avere un primo contatto con il mondo delle imprese, per comprendere come gli scenari geopolitici influenzano le opportunità per il business, nonché per analizzare le traiettorie di sviluppo aziendale.