La vera resistenza al cambiamento è la sicurezza della nostra comfort zone. Attraverso la storia della rana bollita possiamo comprendere quali dinamiche ci portino ad accettare di rimanere in situazioni che proprio non ci piacciono. Una volta raggiunta la consapevolezza e deciso di cambiare, inizia la parte più difficile: il ciclo emotivo del cambiamento. Tutto questo può esserci utile oggi, per affrontare la pandemia di Covid-19.
La difficoltà di cambiare noi stessi
In questi giorni di pandemia le nostre abitudini sono state stravolte quasi quotidianamente. Un’escalation che ha portato al blocco di quasi tutte le attività e all’obbligo di rimanere a casa. Ognuno di noi ha potuto verificare quanto sia tenace la resistenza al cambiamento anche solo delle nostre abitudini quotidiane, figuriamoci di noi stessi.
“Ah, il mondo non è più quello di una volta…”. “Eh, i giovani d’oggi non sanno…”. O per dirlo in piemontese “l’uma sempre fait parei!”. Quante volte abbiamo sentito persone intorno a noi rimpiangere il passato, senza rendersi conto che il mondo cambia di continuo? Il contesto intorno a noi evolve. Le persone, una volta raggiunto un certo equilibrio, tendono a voler rimanere ferme nella propria area di comfort, a costo di alienarsi dagli altri e dalle situazioni nuove che si vengono a creare.
In natura chi cambia sopravvive
Perché questo succede? Cos’è che ci spaventa tanto all’idea di cambiare? Charles Darwin, teorico della selezione naturale nell’evoluzione delle specie, sosteneva che in natura non è il più forte a sopravvivere, bensì colui che meglio si adatta al cambiamento. Invece, giorno dopo giorno, poco per volta, ci adattiamo alle situazioni che non ci piacciono. Non ci prendiamo la responsabilità di cambiare ciò che non va bene per noi.
Non sempre conviene adattarsi
Il filosofo americano Noam Chomsky utilizzava la metafora della rana bollita per spiegare come ogni cambiamento, se sufficientemente graduale, ci vede incapaci di reagire. Secondo la storiella, se buttiamo una rana nell’acqua bollente, lei salterà fuori immediatamente, salvandosi la vita. Se, invece, la mettiamo in acqua fredda e poi iniziamo a scaldarla molto lentamente, lei si adatterà man mano alla temperatura. Quando alla fine l’acqua diventerà troppo calda, non avrà più la forza di saltare fuori e morirà bollita.
La resistenza al cambiamento è nelle conversazioni interiori
Secondo la psicologia comportamentale, l’area di comfort da cui è così difficile uscire è quella condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio. Ad impedirci di uscirne sono paure di vario genere, alimentate dalle nostre conversazioni interiori. Ci diciamo, ad esempio, che non saremo capaci. Che ormai siamo troppo vecchi per certe cose. Che “non sta bene” esprimere la nostra rabbia… Sono solo opinioni e possono essere sostituite in qualsiasi momento con altre più utili, ma nella nostra mente sono equiparate a verità assolute, influenzano il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri e hanno il potere di paralizzare la nostra azione.
Sentirci vittime ci dà un alibi per non fare nulla
La più limitante fra tutte le conversazioni è quella che ci fa dire che le cose stanno così e non possiamo fare nulla per cambiarle, perché non dipendono da noi. Ci mettiamo nella comoda posizione di vittima, innocente e impotente. Stiamo male, ma stiamo comodi, non dobbiamo affrontare le nostre paure (prima tra tutte quella di non essere capaci) né fare la fatica di cambiare. Inoltre abbiamo tutto sotto il nostro controllo e questo è molto rassicurante. Il prezzo di una scelta di questo tipo è, tuttavia, altissimo. Scegliendo la zona di confort ci si adatta a vivere in una situazione sì tranquilla, ma via via sempre meno soddisfacente (come la rana che finisce bollita). Adattamento dopo adattamento, compromesso dopo compromesso, in pratica…si sceglie di non vivere.
Diventare abili a rispondere e saltare fuori dalla pentola
Qual è allora la via di uscita? Come fa la rana, stordita dal calore, a saltare fuori dalla pentola? Il coaching ontologico ci insegna che la parola chiave è responsabilità, intesa come abilità a rispondere. In altre parole, noi abbiamo il potere di cambiare noi stessi e le nostre conversazioni interiori. Invece di dirci che non possiamo fare nulla, perché la colpa è di qualcun altro, possiamo iniziare a chiederci cosa possiamo fare noi, per cambiare le cose.
Le 5 fasi del ciclo emotivo del cambiamento
Prendere coscienza di qualcosa che non ci piace e decidere di cambiare è solo l’inizio. Secondo i ricercatori americani Don Kelley e Daryl Conner, a quel punto inizia una corsa su un ottovolante emotivo: se non siamo pronti, rischiamo di arenarci senza combinare nulla. Durante il ciclo emotivo del cambiamento, attraversiamo cinque fasi, a partire da un ottimismo ingiustificato: quando abbiamo deciso, veniamo colti da un’euforia irrealistica, che si sgretola alle prime inevitabili difficoltà e si trasforma nel suo opposto, cioè un pessimismo giustificato, ostacolo contro il quale si arena il 95% dei propositi di cambiamento.
I propositi per l’anno nuovo mai realizzati
Un esempio tipico sono i buoni propositi per il nuovo anno. Immaginiamo di decidere di voler tornare in forma, ci iscriviamo in palestra (abbonamento annuale), compriamo tutta l’attrezzatura, ci vediamo già muscolosi e dimagriti in costume da bagno al mare…ed ecco che dopo la prima lezione, stanchi e indolenziti, iniziamo a rimpiangere la zona di comfort e ci chiediamo chi ce lo ha fatto fare, mettiamo in dubbio la necessità di andare avanti e cadiamo in una “valle di disperazione” da cui è difficile uscire.
Aiutarsi con micro-obiettivi
Scomporre l’obiettivo finale in una serie di sotto-obiettivi e prendersi un impegno con se stessi (esplicitandolo davanti a testimoni) sono stratagemmi che aiutano a risalire dall’abisso verso un realismo incoraggiante, fase durante la quale facciamo fatica ma sappiamo di potercela fare. Redigere una lista dei piccoli successi quotidiani, da celebrare con soddisfazione, ci porta verso un ottimismo giustificato e infine verso il cambiamento riuscito.
Un esempio di resilienza
Non solo la vita delle persone, ma anche quella delle aziende viene spesso limitata dalla resistenza al cambiamento. Dalla difficoltà di cambiare e di adattarsi a condizioni economiche e di mercato in continuo movimento. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi con l’emergenza legata al coronavirus, che ha costretto allo stop moltissime aziende. Alla fine ad uscirne rinforzate saranno quelle, come alcune tessili o chimiche piemontesi, che hanno avuto l’idea di convertire i propri impianti per la produzione di mascherine e disinfettanti per le mani, riuscendo così non solo a non fermare la produzione, ma a lavorare e produrre utili a pieno ritmo.