Dopo anni di inarrestabile crescita la globalizzazione sembra essere arrivata a un punto morto. O addirittura invertire la rotta. Minacciata dalla politica ma anche dalla tecnologia. Ma la deglobalizzazione è davvero un destino inevitabile?
Deglobalizzazione: una parola pericolosamente di moda
Tra gli addetti ai lavori si parla sempre più spesso di deglobalizzazione. Una parola che vuole indicare una frattura (o almeno una discontinuità) rispetto al lineare processo di globalizzazione. Un processo avviato nel secondo dopoguerra, accelerato dalla caduta del blocco sovietico e poi all’inizio del nuovo millennio dalla graduale apertura della Cina (culminata nel 2001 con l’adesione al WTO).
L’onda lunga della globalizzazione
Sono numerosi gli indicatori che descrivono un’economia mondiale sempre più aperta e interconnessa. La crescita degli scambi commerciali, la rimozione delle barriere doganali e tariffarie, la creazione o l’ampliamento di aree di libero scambio, l’aumento esponenziale degli investimenti diretti all’estero, la nascita di complesse catene globali del valore sono alcuni dei fenomeni più noti e vistosi. Ma anche il diffondersi di Internet e dei social, l’aumento del traffico aereo e del turismo internazionale fanno parte della stessa onda lunga della globalizzazione.
Segnali di deglobalizzazione
Oggi la scena pare diversa da quella descritta 20 o anche soltanto 10 anni fa. Alcuni dati segnalano un indubbio rallentamento del processo di globalizzazione. Dal 2008 a oggi è sceso il rapporto tra il valore del commercio mondiale e il Pil mondiale: dal 61% al 58%. E’ diminuito anche il peso delle importazioni di semilavorati (dal 19% al 17% rispetto al Pil mondiale). Sono in calo anche gli investimenti diretti: erano il 3,5% del Pil nel 2008, oggi sono poco più dell’1%.
Più deboli anche i flussi finanziari
Analoga tendenza è riferibile ai flussi finanziari. I prestiti bancari cross-border sono scesi dal 60% al 36% del Pil mondiale. I flussi di capitale lordi sono scesi da un picco del 7% nel 2007 all’1,5%. Anche il processo di convergenza nei livelli di reddito sembra essersi arrestato: nel 2008 quasi il 90% delle economie emergenti tendeva a convergere verso i livelli di reddito dei paesi avanzati. Oggi la percentuale è scesa al 50%.
…. ma non tutti sono d’accordo
Non tutti i dati raccontano tuttavia la stessa storia. Aumentano non solo i flussi di persone verso i paesi avanzati (fenomeno spiegato soprattutto dall’esplodere di conflitti locali) ma anche i voli aerei internazionali, i flussi turistici (un settore che non sembra conoscere crisi), le spedizioni postali (riflettono l’esplosione dell’e-commerce) e il volume di dati scambiati internazionalmente.
Le radici dell’integrazione economica
Per capire se stiamo davvero andando verso la deglobalizzazione, occorre guardare alle radici profonde del processo di integrazione. Un processo che trovava le sue fondamenta tanto nella finanza, nell’economia e nella tecnologia quanto nella cultura, nell’ideologia e nella politica. La forza del processo di integrazione globale nasceva dal sommarsi di spinte e motivazioni diverse, con dinamiche indipendenti ma sinergiche. La ricerca di una maggiore efficienza nella produzione di valore. Le differenze nei costi di produzione. La volontà di creare un sistema di relazioni internazionali più aperto, multipolare e democratico, che riduca il rischio di conflitti e guerre. La riduzione dei costi della mobilità fisica e virtuale. Il diffondersi di una cultura più permeabile agli influssi dall’esterno, propensa allo scambio e alla contaminazione. E altri elementi ancora, tutti convergenti nella richiesta di un mondo più aperto, con meno barriere.
Pilastri incrinati
Oggi si sono incrinati tutti i suoi pilastri portanti. La deglobalizzazione ne è un esito possibile. Il sovranismo e il nazionalismo non nascono certamente ieri ma nell’ultimo decennio hanno assunto importanza crescente. Non solo nelle aule parlamentari ma anche nella cultura diffusa. Che l’aumento degli squilibri economici e sociali ne sia uno dei fattori di innesco o meno, poco importa. Sovranisti e nazionalisti sono accomunati, pure nelle molte differenze, dall’ostilità verso la dimensione sovranazionale. Predicano il ritorno a un mondo fatto di nazioni, di etnie, di identità culturali più ristrette e definite. Nella convinzione, illusoria, che le nazioni possano meglio controllare il proprio futuro.
La politica spinge alla deglobalizzazione
La globalizzazione è minacciata anche dai cambiamenti della politica. Fino al nuovo millennio, si poteva dare per assodata l’equazione “globalizzazione = democrazia”. Il libero scambio e il mercato sembravano inevitabilmente portare i paesi verso democrazia, diritti civili, liberalismo. Così è stato per decenni. Ma oggi, grandi potenze sono governate da autocrati che vedono la democrazia come un ostacolo o un fastidio (più o meno necessario) e interpretano “mercato” e “libero scambio” in modo strumentale. Benessere e crescita economica non sono più retaggio esclusivo della democrazia. Regimi autoritari o non democratici garantiscono livelli elevati di benessere. Questo scambio può durare o nel lungo periodo i nuovi ricchi chiederanno maggiori diritti politici e sociali? Ciò che sta avvenendo a Hong Kong potrebbe essere esemplare.
Trump e la strategia americana di deglobalizzazione
Poi c’è Trump: non un autocrate, ma una forte personalità e un grande nemico della globalizzazione. Il Presidente americano e i suoi principali consiglieri economici hanno una visione distorta del commercio internazionale. Considerano gli scambi come un gioco a somma zero: se un giocatore vince, l’altro perde. Le relazioni economiche sono assimilati a negoziati dove il più forte spunta condizioni migliori. I deficit commerciali sono da correggere tramite negoziati bilaterali.
Le tariffe: un’arma efficace?
“I am a tariff man”, “le guerre commerciali sono buone e facili da vincere” – ripete il Presidente Trump. Il multilateralismo e le organizzazioni internazionali come il WTO non trovano spazio in questa visione. Il vero bersaglio di Trump è tuttavia la Cina. Uno dei suoi più influenti consiglieri è Peter Navarro, Direttore dell’Agenzia per il Commercio e l’Industria. Autore nel 2011 della bibbia dei protezionisti “Death by China”, dove la Cina viene indicata come il maggiore nemico del dominio economico (e politico) degli Stati Uniti. Un nemico con il quale magari si può negoziare e venire a patti – se non si può vincere la guerra con altri mezzi. Una guerra per la supremazia economica e politica. Le tariffe sono utilizzate come arma strategica, non per spuntare qualche (esiguo) vantaggio economico.
Si riducono gli investimenti cost-oriented
Anche sul piano economico alcuni dei fattori che avevano accelerato l’integrazione si sono indeboliti. La convergenza dei livelli di reddito e di costo del lavoro tra paesi “emergenti” (termine oggi quanto mai inadeguato…) e paesi “avanzati” è particolarmente rapida per le economie asiatiche e la Cina. Questa convergenza riduce i vantaggi della delocalizzazione della produzione. Oggi le imprese investono in Asia soprattutto perché lì si è spostato il baricentro dei mercati, non per sfruttare la differenza nei costi di produzione. Uno studio di Mc Kinsey calcola che oggi meno del 20% del commercio di beni sia spiegato dalla differenza dei costi. D’altra parte, i paesi emergenti sono diventati meno dipendenti dalle forniture di beni high-tech e a maggiore valore aggiunto dai paesi più avanzati. Hanno costruito filiere domestiche più integrate e meno connesse all’estero.
Catene del valore e deglobalizzazione
La convergenza dei costi è solo uno degli aspetti di mutamenti strutturali che tendono a modificare le caratteristiche delle global supply chianain. The Economist ha dedicato un recente approfondimento alle trasformazioni delle catene di fornitura. La conclusione è che da meri centri di costo le global supply chains diventano armi competitive più complesse e intelligenti. L’importanza degli scambi “fisici” e della localizzazione degli impianti di produzione tende a ridursi.
Aumenta il peso dei servizi
Uno dei fattori più rilevanti è l’aumento del peso dei servizi e dei contenuti immateriali sul valore finale dei prodotti. Secondo le statistiche ufficiali il 23% del valore degli scambi è rappresentato da servizi. Se si includono i servizi digitali open source e gli scambi di intangibili tra filiali di imprese multinazionali il peso sale a oltre il 50%. Negli ultimi anni i flussi globali di servizi sono cresciuti del 60% più rapidamente di quelli materiali.
L’evoluzione della tecnologia favorisce la deglobalizzazione
Anche l’evoluzione della tecnologia modifica la gerarchia dei fattori di competitività: in generale, automazione, additive manufacturing, tecnologie digitali tendono a premiare le economie avanzate a scapito dei paesi low cost. Abbassano le economie di scala, riducono l’incidenza del costo del lavoro. I dati parlano chiaro. Se fino a qualche anno fa prevalevano forze centrifughe che dai paesi ad alto reddito spostavano la produzione verso le “periferie”, oggi il “reshoring” non è soltanto aneddotico. Un numero crescente di imprese multinazionali hanno riportato nei paesi di origine produzioni in precedenza localizzate all’estero. E’ aumentato il valore delle forniture di componenti acquistati sul mercato locale.
… e i costi di trasporto non scendono più
Non va poi trascurato che la rapida discesa dei costi di trasporto si è arrestata all’inizio degli anni 2000. L’Unctad calcola che l’incidenza dei costi di trasporto sul valore delle importazioni dei paesi avanzati sia scesa dal 9,5% al 7% tra il 1985 e il 1994, per poi stabilizzarsi su quel livello nel decennio successivo. Un trend più o meno analogo è riferibile anche alle importazioni dell’Asia, mentre per altre aree (America latina, Est Europa) i costi sono ancora calanti.
Economia e tecnologia non amano la deglobalizzazione
Dunque la globalizzazione è in crisi? Senza dubbio, la globalizzazione ha oggi caratteristiche diverse da quelle del passato. Orientata al mercato e ai consumi piuttosto che alla ricerca di bassi costi, molto più smart e mossa da flussi di dati, informazioni e servizi. Le catene del valore si trasformano ma non perdono la loro importanza. Per finanza, economia e tecnologia il terreno più adatto resta un modo aperto e integrato, con zero barriere.
…ma gli obiettivi della politica sono diversi
Gli obiettivi di politica e ideologie possono essere molto diversi da quelli dell’economia e delle imprese. Il pericolo che protezionismo e guerre commerciali possano ricreare un modo diviso in blocchi non è astratto. Il decoupling di Stati Uniti e Cina, lo sfaldamento dei legami tra paesi e imprese, la distruzione delle catene globali del valore possono portare a un mondo ripiegato su blocchi regionali.
Il caso Huawei
Il caso Huawei è esemplare. Se diventerà permanente, il bando Americano al produttore cinese, leader delle tecnologie 5G essenziali per la manifattura avanzata, potrebbe cambiare il futuro della tecnologia delle comunicazioni mobile. Potrebbe portare, ad esempio, a un mondo diviso tra un Internet cinese e un Internet americano. Il dominio tecnologico americano – fino a oggi accettato anche dai produttori cinesi – subirebbe un colpo mortale. L’Europa dovrebbe decidere quale standard adottare.
Europa prima vittima della deglobalizzazione
In un mondo più diviso e aggressivo, in cui Cina e Stati Uniti si stanno affrontando per la supremazia globale (con la Russia che non sta a guardare e altre potenze regionali alla finestra) l’Europa rischia di essere il vaso di coccio. Per non parlare dell’Italia, anello debole dell’Europa. Non abbiamo nè la potenza di fuoco (economica e finanziaria) nè la capacità progettuale nè l’unità di intenti per ripiegarci all’interno dei confini continentali e tanto meno nazionali. I nostri settori di punta (dall’auto all’aerospazio al food alla moda) sono indissolubilmente legati a un contesto globale e a politiche industriali sovranazionali. L’Europa è il nostro “sogno e destino”. La deglobalizzazione potrebbe essere la nostra condanna.
La deglobalizzazione non è un destino già scritto
Il futuro è già scritto? Niente affatto. Accanto a segnali di deglobalizzazione, ve ne sono altri di segno opposto. Alle tariffe americane e cinesi (reali o minacciate) fanno da contrappeso trattati di libero scambio come quelli siglati dall’Unione Europea con il Canada (Ceta) e recentemente con il Giappone. Sul piano culturale, il movimento, apolitico e apartitico, a favore del clima ha unito forse e ideologie diverse per una battaglia trasversale e davvero globale.